L’agonia convulsa

ovvero: L’esodato

e-Book Amazon

Su Amazon:
 'L'agonia convulsa (L'esodato)'
di franc'O'brain

(Amazon Kindle)

 Oggi mi ha scritto un’amica, dopo mesi che non avevo più nuove da parte sua.

   Caro franc’O,

a volte viviamo situazioni paradossali per colpa della tecnologia che tanto amiamo. Tu non avevi risposto alle mie due ultime mail (settembre e dicembre 2022) ed io mi apprestavo a scriverti per dirti che mi dispiaceva averti offeso o (peggio) ferito senza accorgermene, dal momento che sembravi avere interrotto i rapporti con me. Ora da due giorni e mezzo Libero non funziona, e quindi niente account con Libero e niente blog, dal momento che Myblog [appunto:  la piattaforma di blog che fa capo a Libero, N.d.R.] si appoggia a Virgilio che va di pari passo con Libero.

Oggi, sfogliando la posta per controllare la situazione e vedendo che avevo ben 31 “spam”, ho trovato le tue risposte (erano andate a finire proprio nella spam) ma non ho potuto leggerle. Così ti mando queste due righe di scuse tramite una e-mail alternativa… 

 

 Aspetto
fiduciosa.

 

   Cara amica,

viviamo tempi strani. È capitato già diverse volte che miei corrispondenti siano spariti dall’orizzonte visivo per colpa dell’ominosa “spam”, o che io sia in pratica morto ai loro occhi a causa dello stesso motivo o per disservizi similari.

Niente problemi! O, per riprendere lo slogan di Guida galattica per autostoppisti, celebre romanzo di Douglas Adams: ‘No Panic!’ Niente Panico!


Ho notato nel frattempo che la piattaforma MyBlog non è raggiungibile. Ho provato più volte, ma nulla. Sarebbe un peccato se il server continuasse a essere “down”, poiché in Italia moltiblog davvero interessanti si servono proprio di questa
piattaforma. Per voi, sarebbe il caso di trasmigrare verso blogspot /blogger.com, secondo me.

Su Internet, come ormai ben sappiamo, “sicurezza” è un termine assai relativo.


Ricordo tutte le pagine online (anche culturali) che vennero cancellate in un sol colpo quando Geocities venne “risucchiato” da
Yahoo… sto parlando degli albori della Rete, in pratica… Geocities era un sito che offriva spazio gratuito agli utenti e ben presto si riempì di “sottositi” in tutte le lingue del mondo – anche se l’inglese rimaneva, giustamente, l’idioma predominante. E rammento tante altre homepage e non pochi indirizzi di e-mail che sono spariti con lo sparire di un qualche server o provider oppure con il suo trasmigrare da una proprietà all’altra. Per questo, rimango scettico nei confronti di Internet, sebbene io abbia a che fare con i computer (PC) e con la comunicazione via computer (che
un tempo avveniva via modem [MOdulator-DEMulator) in pratica fin dagli inizi; meglio: da prima ancora che Internet stesso prendesse piede qui nel Mitteleuropa. (Si comunicava, via rete telefonica – che allora in Germania dipendeva dalle Poste -, “messaggiandosi” su piattaforma MS-Dos  [non ancora usando Windows, dunque] attraverso cosiddette ‘Mailbox’. Io e i miei amici in possesso di computer, dei quali alcuni abitavano in campagna, ci divertivamo con questa novità e ci divertivamo a propagandarla presso amici e conoscenti nonostante costoro scuotessero la testa con compatimento e ci chiedessero cosa ce ne facessimo di un “calcolatore”: che cosa di bello avevamo da calcolare, ‘noi’? E smontavamo e montavamo le schede elettroniche contenute nelle enormi casse – che fiancheggiavano gli enormi monitor posti sulle scrivanie – spendendo anche un bel po’ di quattrini, per potenziare continuamente il nostro PC. Il groviglio di cavi elettrici era onnipresente…)


La storia dei primordi del web è molto affascinante. Io ci ho
scritto un romanzetto, I dolori di Cyberius, ma mi fa tuttora
piacere leggere articoli che riassumono quegli anni di grande
entusiasmo (da parte di noi ‘nerd’): è come riguardare una vecchia
foto che raffigura anche noi, pur se magari posti in un angolo e
mezzo nascosti. Articoli come questo:


https://www.globusmagazine.it/la-nascita-internet-la-rete-rivoluzionato-mondo/

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Su Amazon: I dolori di Cyberius, eBook 

  IL CARBONE BRUNO                                          

“Sì, Lindoro mia sarà… lo giurai, la vincerò…”

 

  (G. Rossini: Il Barbiere di Siviglia, Atto I, Scena III)

«Laggiù, dall’altra parte… la neve era nera. Nera.»

Brigitte quasi albina mi racconta ogni cosa, si racconta, stasera, rivivendosi settenne od ottenne a Lipsia. La neve nera e le fosse che si allargavano come ferite: ecco le uniche cose che sembrano esserle rimaste dell’infanzia.

«Scusa, ma di che fosse vai parlando?» indago, con blando interesse.

«Delle miniere.»

Ah, ora è chiaro. Le miniere. Le miniere di carbone in Turingia sulla luna.

Brigitte stessa ha in sé qualcosa di lunare. È seduta di traverso sul materasso pieno di macchie, la schiena contro il muro, e io addosso a lei. Ha uno sguardo soffice e intelligente e una bocca di zucchero. Erano secoli che non trascinavo nel mio stambugio una cosuccia tanto carina. Dopo averla adocchiata al Frantic, mi son detto: “Che chicca! Mi fa sangue.” E giù ad attaccare bottone. Ovviamente mi sono subito accorto che parla un tedesco sciscì, ma questo non significa che abbia “la puzza sotto il naso”. Neanche la sua aria da studentessa può intimidirmi. Nessuna può intimidirmi. Da buon italiano, io la penso alla maniera classica: le donne? Tutte puttane. Tranne la mamma.

Le artiglio la nuca e protendo le labbra.

«No, aspetta!» fa lei. «Guarda.»

Fruga nella borsetta e mi porge una foto: sullo sfondo di una casa-caserma, ecco Brigitte-bambina.

«Eri deliziosa già allora», le alito su una guancia. «Le treccine… Le scarpine che affondano nella ghiaia…»

 Ci tiene a informarmi: «È carbone, non ghiaia. Carbone bruno. Nella DDR, il carbone era dappertutto. Ci facevano ogni cosa: la benzina, i vestiti, i muri…» Il Muro. «Una barriera invalicabile», dice. «Quanti lutti per colpa di quella mostruosità!»

Si ravvia i capelli, mentre mi spiega che la sua famiglia è fuggita all’Ovest quando lei aveva cinque anni. Ha la parlantina sciolta, ma sembra insicura: evidentemente la mia tana la spaventa. Beh, in effetti spaventava anche me, all’inizio. Le prime notti qui non potevo chiudere occhio, a causa del lampeggio proveniente dall’insegna del pub sottostante. Balenii rossi e blu sincronizzati. Poi ho imparato a contarle, queste luci, ma non è lo stesso che contare le pecore.

Tiro fuori le Marlboro e il fumo mi inonda i condotti respiratori. Intanto Brigitte continua a raccontarmi della sua infanzia. Come se a me importi qualcosa di quel che succedeva dall'”altra parte”! Aspiro l’intruglio di carta, catrame e nicotina bollente pensando: “Vai a farti fottsz!” Se Nando S. viene a sapere che sto qui, insieme a questa bonazza, senza combinare nulla…! Sai che risate!

Nella tana di Nando, ogni notte qualcuno vomita sulla tappezzeria un nuovo disegno. A volte deve accorrere il medico del pronto soccorso, perché Inga – la sua négresse – oppure qualcun’altra si è sentita male ed è in preda a un raptus, o peggio.

«No, lasciami stare.»

Comincio a pentirmi di averla rimorchiata. Al mio paese si dice: “Mai giudicare una giovenca dal pelo della sua coda”. Brigitte è sì bella, ma ha voglia di parlare e basta. La lampada che, nuda, penzola sopra la sua testa, rende il suo sguardo quasi ittico. Al Frantic mi era sembrata diversa, più spigliata. Ma, se si è trasformata, è certo colpa dell’ambiente.

Lancio un’occhiata circolare. Da non crederci, ma per questo schifo mi tocca pagare 500 marchi al mese. Le pareti sono pannelli in cartongesso; un sistema di intercapedini che forma tre locali. Non locali: nicchie. Questa stanza, più cesso e cucinino. Su uno dei pannelli, l’inquilino di prima (era polacco? o indiano d’India?) ha incollato delle stelline d’argento: souvenir natalizio che io ancora non mi sento di togliere. Sul comodino, un posacenere con una montagna di cicche e i cottonfioc sparpagliati. Ai piedi del letto sono buttate le mie sneakers da bici di Superga e due paia di calzini luridi. Il televisore me l’ha venduto un turco; riceve solo programmi tedeschi, e io il tedesco ancora lo capisco poco.

«Ho sonno», dichiara Brigitte. «Quasi quasi, stanotte rimango da te.» E dà un’occhiata allucinata in giro. È una di quelle ragazze che vivono nella bambagia. Mi sembra di vederla, nella sua cameretta pulita e ordinata, dormire abbracciata a un orsetto flanellato. Come mai si è avventurata fuori, nella giungla? Pollastre come lei vengono uccise di coltello o rasoio.

Dice di aver sonno, eppure il suo estenuante monologo non ha fine. È chiaro che cercava qualcuno con cui confidarsi. E ha finito col trovare me. E brava! Ho notato che, nel pronunciare certe parole, mostra la punta della lingua – pare una ciliegia cresciutale sulle labbra -, e un sospetto mi addenta alla testa: il sospetto che lei non sia del tutto normale. Il suo papà l’avrà lanciata in aria una volta di troppo…

Apprendo che si è iscritta all’Università. Mmm. Di certo trascorre molte ore in biblioteca, tra vecchi libri e documenti ingialliti. Per me i libri sono veleno; soprattutto quelli antichi. Le spore della muffa mi entrano nel naso e tentano di uccidermi.

Di là, il cigolio di un letto. Nando S. ha una predilezione per le donne mature, dai ventotto in su. Adesso starà con la Inga. O con una nuova. In tutti i mesi in cui conosco il connazionale, ho visto entrare nella sua tana cameriere dal seno gonfiato, mondane dalle labbra viola, casalinghe con gli occhi di pantera… ma mai una come Brigitte.

Brigitte non ha un cuore di silicone: è nata per amare un unico uomo, un uomo da cui ricevere dei cuccioli. Peccato che, per il sottoscritto, diventare padre sia qualcosa di repellente!

Continuo a palparla, ma senza più convinzione. Mi sento arrugginito. Negli ultimi giorni o mesi sono riuscito ad agganciare solamente pollastre con l’alitosi o con il piede valgo e mogli che ti piangono addosso negandoti le fessure. Ultimamente è stata qui una trentenne fresca di vedovanza: era infoiata, gli occhi e il cervello pieni di colla. Neanche a letto ha voluto togliersi quel suo vestitaccio nero. Qui arriva solo merce avariata.

«Senti», prorompo, «ascoltiamo della musica.» Mi alzo per mettere un cd, ma non è facile: la confusione è immensa. I dischi sono sparsi per i più remoti anfratti. Tutta questa musica lasciata al suo destino, muta! Dovrei apportare qualche miglioramento, che so: fare una cernita, infilare la roba superflua dentro sacchi di immondizia…

La mia collezione comprende diverse raccolte di successi italiani. Alle tedesche le nostre mandolinate piacciono molto. Umba, umba, tarà, ra’-ra’. Un pugno di accordi e mille sogni. Volare, ‘O sole mio…

Infilo qualcosa nello stereo e già parte il primo pezzo: una canzone del Sanremo dell’anno scorso. Già che ci sono, ne approfitto per togliermi il maglione, così smaltisco un po’ di calore. Il termosifone va a mille, regolarlo è impossibile; sembra di essere in una sauna. L’aria è stantia, fumosa. Aprire la finestra? No, meglio di no. Fuori devono esserci 20 sotto lo zero.

Mentre sto per tornare a sedermi accanto a Brigitte, vengo attratto dalla mia immagine allo specchio.

Vedo un tipo alto e magro, con la faccia ossuta e le basette disegnate sulle guance. La sigaretta, brandita fra indice e medio, sembra una siringa preparata per un agghiacciante gesto eutanasiaco.

Questi miei occhi… Di solito porto occhiali scuri. Anche quando non splende il sole. Li porto persino di notte: in disco, per strada. Solo a casa ne faccio a meno. Avvicino il mio volto allo specchio: si presenta bianco come uno straccio. Gli occhi – lo ammetto – incutono paura.

Sono sempre in giro: per forza mi tocca prendere della roba per restare sveglio! Oltre ai litri di caffè, ogni tanto butto giù un paio di anfe o qualcuna delle pasticche colorate che Nando S. mi ficca in mano. Gli italiani di mia conoscenza sono tutti strafatti di coca, crack, ecstasy. Niente di strano che nei ristoranti i clienti si vedano servire spesso pizze assai strampalate!

Anche nelle rare occasioni in cui voglio starmene a casa, perché stremato per la fatica, c’è Nando che mi spinge a uscire. «Non fare il pirlazzone», mi ammonisce, affibbiandomi piccoli pugni sulle spalle.

Quando va in fibrillazione compulsiva, Nando è un bulldozer, uno schiacciasassi. Impossibile opporsi. Lui è per le auto veloci e… per le donne veloci, quelle che passano come l’ombra di un fotogramma, volatilizzandosi immediatamente. Con la vita che conduce, morirà prevedibilmente prima dei trent’anni. Ma intanto si diverte: con la Inga o con le consorti di altri.

«Il Muro», continua Brigitte. «Nel 1990 sono tornata a rivederlo. L’ho attraversato passando per una breccia. Me ne sono persino procurata una scheggia, prima che “i picchi muraioli“ lo demolissero definitivamente. Se vuoi, un giorno te la mostro. La scheggia, voglio dire.»

«Mmm», brontolo. Che libidine! Nulla da eccepire su un po’ di conversazione, ma questo è peggio che al confessionale! Magari lei è una di quelle tipe pesantemente cattoliche, anche se il suo abbigliamento non si addice a una santarellina: porta infatti un vestito stravagante-trendy color albicocca che lascia intravedere ogni cosa. Le metto le dita tra i capelli e, di nuovo, lei respinge la mia mano. È fredda, distante. Colpa dell’ambiente? Decisamente, questo luogo non si presta agli incontri romantici. A parte l’incommensurabile disordine e le strisce rossoblu che vanno a stagliarsi sul soffitto, la polvere è dappertutto.

Mentre prosegue a parlare, il tempo avanza a passo di lumaca. Il tempo ha tempo da perdere e viene a fermarsi da noi per riposare. La noia viene a visitarci e si comporta come se questa fosse casa sua. Brigitte blatera bla’. Anziché stare ad apprezzare gli idoli canori d’Italia! Discorsi che mi causano il mal di testa. Fino a un’ora fa sprizzavo entusiasmo da tutte le scaglie. Essere riuscito a rimorchiare questa bionda pettoruta, uscire con lei dal Frantic sotto gli sguardi invidiosi di tutti mi era sembrata chissà che impresa…

I bagliori intermittenti dell’insegna del pub sembrano suggerire:

“LASCIATE LA VOSTRA VITA ED ENTRATE IN UN MONDO MIGLIORE.”

Vorrei correre fuori, fuggire dallo squallore circostante. Scandaglio il mondo oltre i vetri: buio fondo. La meteorologia è uno schiff. C’è pure nebbia: tipico inverno teutonico. Bisogna forse stupirsi che qui alla gente il cervello gli va di balta? Laggiù, nel paese del sole, di tutto questo non sanno un tubo.

Il quartiere in cui vivo è stato costruito là dove prima c’era un bosco, e dunque in un luogo che dovrebbe conferire alle abitazioni (pomposamente denominate “monovani”) una dimensione naturale. Di alberi però non se ne vedono manco col cannocchiale, e dai rubinetti esce acqua straclorata.

Ma perché lamentarsi? In tivù ho visto l’Afghanistan: decine di migliaia di disperati che vagano con pochi vestiti addosso e nessun riparo di alcun tipo. Dormono per terra, ai bordi delle strade… Quelli sì che stanno male!

Torno a volgermi verso Brigitte. Peccato che sia un po’ decerebrata, perché è bella, procace. Potrebbe essere una fatina della notte; e io il suo protettore. Le punto l’indice sulla fronte e: «Pum!» sparo.

Tace di colpo; proprio nel momento in cui termina una canzone. Nell’arco dei secondi che anticipano l’inizio della successiva, il silenzio è talmente profondo che si sentono solo le ossa dell’edificio scricchiolare. E, ogni tanto, le risate e i mugolii provenienti dall’appartamentino contiguo. Mi chiedo con chi se la sta spassando Nando. Se non è la Inga, sarà un’altra. Mentre io… Già mi vedo a masturbarmi dopo che Brigitte se ne sarà andata; vedo la mia mano agitarsi sempre più lesta…

La bionda tiene gli occhi chiusi; è pallida più della luna. Mi sporgo per spappolare la sigaretta nel posacenere e: «Dài, spogliati» la sollecito.

Si fa dura, di marmo. Mi fissa guardinga negli occhi. Questi miei occhi di bragia. Non capisce che sto combattendo per non far dissolvere gli ultimi strascichi di euforia. Le sbottono la camicetta, le sgancio il reggiseno. Sui capezzoli ha peli quasi trasparenti, ed elettrizzati. Ancora una volta respinge la mia mano e io, con mia stessa sorpresa, non le do nemmeno uno schiaffo.

Lo ammetto: non sono in forma. Dovrei dormire di più. Ma come? Non c’è mai tempo: bisogna sempre andare in giro, esorcizzare il mal di solitudine. Nel Belpaese mica lo sanno la vita che facciamo quassù! La vita che faccio. Dieci ore al forno della pizza, poi di corsa al Frantic, l’unica discoteca della cittadina. L’occhiale da sole è un bene irrinunciabile; anche di notte. Soltanto il mercoledì – mia giornata libera – riesco a riposare. Il mercoledì mi sveglio sul tardi e, se la discoteca è ancora chiusa, vado a infilarmi in una bisca, dove gioco al flipper o sfido al biliardo greci, turchi e rumeni. A volte mangiucchio qualcosa nella pizzeria che fa la concorrenza a quella in cui lavoro io. Poi… via! In cerca di prede. Spesso fino all’alba. È giusto stancarsi quando si è giovani! Se non ci stanchiamo ora, quando potremo farlo? Presto saremo scaraventati nel mondo reale, quello dei “grandi”: nessuna possibilità di cazzeggiare. Ma non credo che, in qualsiasi tempo e luogo, potrei mai smettere veramente di cazzeggiare. C’è gente nata per lo sport, altra nata per le scienze o per le arti… Io, come diceva Guccini, sono nato per i parties.

Cerco di baciare la quasi-albina, col sapore della Marlboro che mi ammorba la bocca, ma lei si ritrae con occhi spaventati. Capisco che questo nostro convegno resterà un episodio isolato, che presto ripiomberò nella solitudine.

Non sopporto di ritrovarmi da solo, abbandonato, battuto dal dolore della lontananza. I miei mi hanno lasciato partire senza tanti rimpianti: in casa c’erano troppe bocche da sfamare e qualcuno doveva pur sacrificarsi per alleggerire il bilancio. Dovrei mandare loro i soldi, invece li spendo tutti qui per stordirmi ogni notte nei locali, nelle bische. E i giorni sono anche peggio. Mi metterei a urlare ogni volta che mi ritrovo internato in questo alveare di cemento. Sento le porte che si aprono e si chiudono… Allora mi metto a fissare la maniglia finché non riesco ad azionarla con la sola forza del pensiero. E mi proietto fuori, dove però non c’è niente: solo una distesa bianca come un foglio di carta vuoto. Nel giro delle figure in cui mi imbatto durante la mia passeggiata, riscontro una stordente familiarità con le statue di gnomi nei giardinetti.

Le strappo un bacio, poi cerco di sfilarle la gonna. Evidentemente ciò non la disturba più. O forse è solo sfinita, rassegnata. Addirittura si inarca per facilitarmi l’operazione. Nel contempo, però, aumenta la veemenza della litania.

«Il carbone bruno è un minerale di pessima qualità», dice. (La mia lingua nella sua orecchia.) «Consiste per il trenta per cento di acqua, per ben il quattro per cento di zolfo e contiene molta materia cinerea.»

Sa proprio un sacco di cose. Foemina sapiens. «Sai tutto» (arrapato).

La schiaccio sul materasso.

La sbatto? Ti sbatto!

Io un asino scuro, tozzo; lei superalfabetizzata. Una forma di protesta, la sua, mettersi insieme a uno come me; a un Canaco; uno straniero, cioè.

Vive nella Germania Ovest da una decina d’anni. Ha imparato fin da subito come ci si veste nel mondo civile. Di spogliarla tocca a me, a me Canaco.

Comincio a farlo. Ma non ci sta. Stringe le gambe. È come giacere accanto a una sirena, a una donna-pesce. Quando torna ad aprire bocca, perdo la pazienza. «Schweig, Schlampe!» scatto.

Il viso le si increspa; tuttavia, continua a macinare parole. Mi fa passare davanti agli occhi un film che narra di devastazioni. L’Est tedesco. Ciminiere come inutili monumenti e, per le strade piene di buche, disoccupati disoccupati: le vittime dell’Unità.

«Che fai?» salta su a un tratto.

La fotto? Ti fotto! Lei quasi lattea, io nero di peluria. «E non frignare!» la sgrido.

Torna in sé a giorno fatto. Tutta sola sul lettino. Via il carbone, rimane la cenere.

franc’O’brain è uno degli pseudonimi usati dallo scrittore Peter Patti. I suoi romanzi e racconti sono presenti su Amazon, massimamente in formato Kindle eBook. Ha lanciato uno stile chiamato “sborror” (una variante più colta dello splatter ).

Vai su Amazon per vedere la bibliografia (parziale) di franc’O’brain !

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Proprio noi, noi uomini minuscoli, creature grigie e dalle sembianze spesso ridicole, siamo stati prescelti per portare il basto che un tempo i romanzieri caricavano sul groppone di erculei personaggi. Ci facciamo strada attraverso i sedimenti della Storia, costeggiando gli abissi delle ère glaciali prossime venture e, superando i sobborghi dei sobborghi delle megalopoli, filiamo dritti verso il centro del Leviatano, in direzione dell’occhio del ciclone, senza minimamente degnare di uno sguardo le rovine fumanti della guerra interplanetaria appena conclusasi. Sgusciamo fuori dalla canalizzazione per provare un più forte senso di nausea mentre passiamo in mezzo ai grattacieli di Manhattan o camminiamo lungo la Prospettiva Nevskij. E, finalmente: casa nostra!… L’abbiamo passata grama, ma la nostra donna ci darà un pigiama profumato e provvederà a curarci i graffi e le ecchimosi, la scabbia e le palle gonfie.

                  (Da uno dei racconti di Incesti rossi, di franc’O’brain)

 

incesti  eBook, Amazon

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18 novembre 2019

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Incesti rossi, di franc’O’brain

incesti

Disponibile su Amazon (quasi gratuito!) l’e-book di questa raccolta di racconti (racconti “sborror”, ma anche lirici e di vita vissuta) dell’autore de I dolori di Cyberius.

Incesti rossi è un corposo compendio dei mali e degli orrori di ieri e di oggi… con un occhio di riguardo per la narrativa “alta”.

 

 

L’AUTORE 

graff1

 

franc’O’brain è garanzia di qualità. Divenuto famoso dapprima sul web – ancora al tempo dell’Avant pop – e creatore delle sborror stories (TM), pubblica ormai a cadenza regolare romanzi e “novelle” (che sarebbero i romanzi brevi, o i racconti lunghi).

“franc’O’brain” è ovviamente uno pseudonimo… e chi lo detiene scrive anche sotto altri noms de plum, dedicandosi non solo allo splatter ma anche alla fantascienza “seria” e a romanzi definibili all’avanguardia.

francobrain

Incesti rossi, e-book, sul sito Amazon

… e l’inizio del PC!

Il 4 febbraio del 1991 il PC – Partito Comunista – cessava di esistere… per essere sostituito sempre più decisamente dal PC (Personal Computer)!

(Il XX congresso del PCI che si tenne a Rimini dal 31.1 al 4.2.1991 decretò la fine del più grande partito comunista occidentale)…

 

 

Leggi il seguito di questo post »

franc’O’brain è su “GoodReads!”

Vi troverete la lista dei titoli dei suoi libri.

horror 

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“Sborror” (TM) è un termine che indica una letteratura di stampo horror con elementi weird.

È il marchio di fabbrica di franc’O’brain, che fin dagli anni 90 si fa notare come cyberscrittore, traduttore dall’inglese e dal tedesco, romanziere splatter… ma anche autore serio (vedi il suo romanzo I Dolori di Cyberius).

 

Questo volume (Sangue, macerie & vanità) raccoglie alcuni racconti “sborror”. https://www.amazon.it/dp/1976949378/

sangue-macerie-vanita-cover

146 pagg. V.M. 18

8 eurini

Settembre. Settemb. Sett. S.

23 settembre 2017

I dolori di Cyberius

franc’O’brain

romanzo

 

( )

 

 

 

dolori-di-cyberius-intern-streetlib

 

Per una panoramica di tutti i titoli di franc’O’brain su Amazon Kindle, clicca qui:

 

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#horror #fanstascienza #sf #musica

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*** Skuro Connection è un marchio registrato (franc’O’brain design projects, 2002-2022)

I dolori di Cyberius

17 dicembre 2016

C’era una volta un ragazzo appassionato di computer, in un’era in cui il PC non ce l’aveva nessuno. Lui e i suoi accoliti venivano considerati mezzo folli

 

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21 ottobre 2016

= = = Là dietro… nelle città dalle quali provenivo… imperava la crisi. ‘Krise’! ‘Crisis’!… Un vocabolo terribile, in qualsiasi lingua lo si pronunci. Uomini e donne lottavano per riuscire a tirare avanti, per campare, per non crepare di morte sociale… e non sapevano quale fortuna in fondo avevano! Io, emigrando, mi ero ammalato. Era questa la verità. Mentre i miei connazionali cercavano di non affondare nella melma della palude nostrana, Marco alias Marcus, nella sua nuova patria, aveva ottenuto un lavoro pulito e ben retribuito e si era dato agli svaghi. Ignorando che un germe letale era attecchito in lui.
Era così. La mia battaglia finale – ‘Via Diaboli’ – era ugualmente vera, concreta, ma di gran lunga più dura, più definitiva di quella loro; in quanto sfociava nella metafisica. = = =

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 Eccolo !   La Skuro Connection procede abbastanza speditamente con la pubblicazione degli eBook (per Kindle) dei racconti di franc’O’brain

Il contenuto di

Antologia sborror vol. 2

(V.M. 18):

Fausta
I corvi bianchi
Hotel Biancaneve
La grande ora di Amok
Arachnolove
Le Gioconde di Gesù
Il colpo mancante
Fulvia
Ogni volta che la pubblicità
Steroid Killer
L’ultimo consulto
Spooky
Pholcus Phalangioides

                                                                                Pag. 666  (Note)

                  ▒▒▒▒▒▒░▒▒▒▒▒▒▒▒░▒▒▒▒▒▒▒▒▒▒▒▒▒

In tutto sono in programma tre raccolte “sborror” ((C) franc’O’brain). Questa è la seconda, come sempre piena di elementi mortiferi che però non esaltano una presunta tanatofilia dell’autore, quanto il suo attaccamento alla vita. Suo e… dei suoi personaggi.

Come il primo, anche quello attuale è un tomo abbastanza corposo (135 pagg.), pieno di “storie” raccapriccianti, sanguinose… ma anche di casi umani – stravaganti, bizzarri, splatter, tutti all’ombra dell’Orrido, dello Spaventevole.

Di seguito, una recensione dal web:

… La verità è che in Italia, dagli Anni Settanta, non è cambiato proprio nulla. Se un tizio di allora tornasse a sfogliare i giornali e a seguire la televisione solo oggi, dopo trentacinque-quarant’anni, troverebbe nomi nuovi ma, essenzialmente, gli stessi problemi: disoccupazione inarrestabile, lentezza esasperante del mostro burocratico, ricchi ladri e tantissimi poveracci che si fanno la guerra tra di loro.

Meglio dunque prendersi una pausa dai quesiti attuali (verrà Berlusconi finalmente interdetto? il governo Letta si inchinerà al diktat dell’Europa o cercherà di risolvere i veri bisogni del Paese?…), che del resto servono soltanto ad avvelenarci maggiormente la vita; meglio spegnere la TV, chiudere  per un po’ le infide finestre d’informazione e leggere qualche buon libro. Anzi: qualche buon e-book.

La Skuro Connection ha realizzato per Kindle un’Antologia Sborror (per ora due volumi; ma in programma ce n’è un altro) che, in nuce, contiene tutti i vizi (delitti efferati ed eros; thanatos e follia quotidiana…) che sorprende per qualità di scrittura e per grado di entertainment. La parola “sborror” (TM) (marchio registrato!) è un’invenzione dell’autore di queste storie, franc’O’brain,  che con tale termine designa lo stile delle sue narrazioni.

Divertitevi! Divertiamoci! Rilassiamoci!

La Skuro Connection ha realizzato un tomo (in formato eBook per Kindle) pieno zeppo di racconti horror e grotteschi a firma franc’O’brain. Lo stesso autore preferisce definire il suo genere “sborror” (TM)…

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E’ il primo faldone, o volume, di racconti “sborror” legati a uno o due blog intestati al celebre autore italiano di horror e SF. Un libro alquanto corposo, pieno di casi raccapriccianti, sanguinosi… ma anche di casi umani, sia pure tutti all’ombra dell’Orrido, dello Spaventevole.

‘Antologia sborror Vol. 1’

Contenuto:La Macchina, Pantagruele 2005, Il sesso dei morti, Pac-Man, Friedhof, Scacchi online  passione d’incubo, Rossana, Dal diario di Jack S, L’angelo degli zombi, Adorabile orco, Eclissi, Piccobello, Diablo Records Inc, Storia di Lui, La Bestia, La morte felice, Sein Kampf, Sonija B., L’epitaffio, Pag. 666.


Sono in programma altre due raccolte “sborror”.

Dal primo volume e in esclusiva per i nostri lettori, ecco il testo integrale di

 

Rossana

I suoi genitori sembrarono contenti di mettermela tra le mani. Stolti! Incoscienti! Non vedevano dunque che era come consegnare la loro figliola a un boia? Lei, Rossana, 19 anni, era troppo innamorata di me per riuscire a ragionare. E la mentalità piccolo-borghese di sua madre e suo padre impediva loro di penetrare con la mente oltre le semplici apparenze.

Fu così che, in una soleggiata domenica di maggio, tornai alla torre avita non più da solo, bensì in compagnia di una ragazza che era più giovane del sottoscritto di almeno un quarto di secolo.

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I particolari della cerimonia nuziale sono svaniti dalla mia memoria; soltanto brandelli di immagini riaffiorano qua e là, confusi, nebulosi, come nel dormiveglia di un fumatore di oppio.

A Rossana la torre piacque. Malridotta di fuori (sembra quasi un rudere, effettivamente), questa ultracentenaria costruzione che sorge ai margini della cittadina e che fin da sempre è stata possedimento della casata Bodoni presenta, al suo interno, un’eleganza austera e raffinata. I mobili, i tappeti, gli arazzi, i tendaggi di finissimo broccato… ogni cosa è rimasta come l’ha lasciata la buonanima di mamma.

«È un sogno», commentò Rossana guardandosi intorno, immediatamente dopo aver lasciato cadere le valige. Poi corse verso le finestre, con l’intento di spalancarle.

«No!» dissi, fermandola in tempo. «No», ripetei più dolcemente, abbracciandola.

Lei si abbandonò contro di me.

Poco dopo fremeva, avvolta dalla seta delle lenzuola. Io, ugualmente nudo, la tenni stretta finché su di me non scese il sonno.

«Ma come mai non hai il telefono? E un televisore?… Non c’è nemmeno lo stereo! Possibile che tu non ascolti mai musica?»

Queste domande mi infastidivano. Dunque è così essere coniugati? Stringere un patto matrimoniale significa alienare la propria vita?

«Io dipingo», dissi, a mo’ di spiegazione.

«Oh.» Ciò sembrò quietarla. «Non me lo avevi detto. In realtà, di te non so quasi niente.» E poi: «Non mi dispiacerebbe dare un’occhiata ai tuoi quadri».

La guidai nello studio. Sembrò stupita di vedervi un’unica tela, fissata sul cavalletto.

«È questa la tua… opera?» chiese incredula. «Una sola? E… che rappresenta?»

«Colori», risposi. «Non lo vedi? A me piace mischiare i colori, sovrapporli l’uno all’altro. Alla fine, raschio via il tutto e ricomincio da capo.»

«Ma… a che scopo?»

Sorrisi indulgente. «L’arte non deve avere uno scopo, mogliettina. Io dipingo per il semplice gusto di farlo.»

Rimase a bocca aperta, ma perlomeno la sua curiosità era esaudita.

Avevamo organizzato le nostre giornate in maniera soddisfacente: io stavo nello studio a dipingere e lei usciva a passeggiare o a fare le compere o quel che voleva. Verso mezzogiorno e sul calar della sera mi spostavo in cucina, dove preparavo da mangiare per entrambi. Amo cucinare. Cucinare è un po’ come la pittura: una mera sovrapposizione di colori. Ho sempre cucinato per me stesso fin da bambino e ora non avevo nulla in contrario a fare doppie porzioni. Toccava a lei sparecchiare e lavare piatti e stoviglie.

Dopo cena andavamo quasi subito a letto. Esteticamente, Rossana era impeccabile. Ammiravo i suoi piccoli seni, le sue gambe tornite, la rotondità dei fianchi.

«Non hai amici? Non vogliamo uscire insieme? E perché non inviti mai i miei?»

«Zitta», troncavo tutte queste sue chiacchiere, attanagliandola. «Non rovinare la magia del momento.» E mi addormentavo incollato a lei.

Con il trascorrere del tempo, le passò la voglia di tempestarmi di domande. In fondo io meritavo rispetto, in quanto aristocratico. “Il barone”, mi appellava la gente comune. Barone Bodoni: è così che mi chiamo. Fu una mossa astuta da parte di mia madre (rimasta vedova giovanissima) quella di assegnarmi come prenome il corrispondente del titolo che porto. Ciò può anche servire ad evitare eventuali dubbi sul mio status di nobile blasonato. Una volta, uscendo da un bar dove avevo bevuto un caffè, sentii uno della plebaglia sussurrare a un altro: «Vedi quello? È un autentico patrizio. Un barone. Di nome e di fatto».

Sono tali episodi a raddolcire la vita di individui del mio rango.

Dopo circa una settimana dal nostro matrimonio, cominciai a capire com’era Rossana. Era stata educata in maniera sbagliata; cosa che non deve meravigliare, considerando il focolare da cui proveniva. Fondamentalmente era una ragazza romantica (altrimenti non si sarebbe innamorata di me, uno dei pochi “principi azzurri” ancora rimasti nel nostro emisfero!), però possedeva l’astuzia della marmaglia contadina. Un giorno, prima di uscire a fare la spesa, mi chiese dei soldi.

«Non posso pagare sempre io», si azzardò a lamentarsi, rivelando uno straordinario senso pratico. «Anche perché non sono proprio soldi miei, ma di mio padre.»

«Quanto ti servirebbe?»

Sparò una cifra, al che io le misi in mano la metà.

«E il resto?»

«I tuoi genitori non sono poveri, no? Inoltre si rallegrano a saperti sposata con me. Sei diventata una baronessa e… noblesse oblige! Ovvero: entrare a far parte della casta gentilizia val bene qualche sacrificio.»

Infilò la porta che dà sulle scale con espressione vacua, camminando lenta.

Soprattutto a letto, Rossana poteva essere audace e cautamente violenta. In un’occasione guidò una mia mano verso il suo spacco umido, ma io la ritrassi di scatto.

«Allora non ti attraggo!» esclamò, rizzandosi a sedere.

Ora, dovete sapere che io non sono del tutto fuori dal mondo. Quando studiavo, avevo sentito i miei commilitoni raccontare di questa o quella ragazza “eccitata come una troia”. Parlavano spesso di obbrobri consimili. Ma… possibile che mia moglie fosse come le altre?

«Certo che mi attiri!» la contraddissi. «Difatti, non faccio che amarti.»

«Amarmi? Tu? Ma come…? Dove…?» E il suo sguardo andò da me al proprio pube nereggiante.

Ridendo, la spinsi lievemente fino a farla tornare in posizione orizzontale. «Sei una sciocchina, sai? Non vedi quanto mi delizi?» E, per dimostrare la veridicità della mia asserzione, la avvinghiai, appoggiando l’orecchio sul suo cuore.

Fu in una di quelle sere che, mentre cenavamo, mi indirizzò questo quesito: «Barone, tu sei felice? Felice per davvero?»

Riposi coltello e forchetta e la fissai. Che cosa significava “per davvero”? Pensai e ripensai e, a forza di farlo, una ruga mi si disegnò sulla fronte. «Certo», le assicurai infine.

Lei prese coraggio e mi guardò dritto negli occhi. Di solito non riusciva a sostenere il mio sguardo… Insisté: «E quindi mi ami».

Di nuovo? Come osava dubitarne?

«Siamo sposati», le rammentai.

Annuì e tornò ad abbassare il capo, riprendendo a desinare. Cosa che feci anch’io. Poco dopo, la sua voce risuonò un’ennesima volta. Stava rischiando di annoiarmi.

«Perché non mi parli mai dei tuoi ricordi? O dei tuoi progetti per il futuro?»

Ricordi? Progetti?

Interrompendo la masticazione, le lanciai un’occhiata più severa del solito. Dopo qualche secondo, sospirai e le risposi, altamente magnanimo: «Ora ho te. Te e la mia arte. Di altro non saprei parlare. Non c’è nient’altro di cui potrei parlare, in effetti».

«Ah», esalò Rossana, con l’incertezza che le tremolava sulle palpebre.

Alzai il mio calice e le proposi un brindisi, e ciò la rimise, almeno parzialmente, a suo agio. Poi proseguimmo la cena senza altre inutili discussioni.

Comprendevo che voleva far di tutto per strappare la mia anima dalla melma della consuetudine meccanica. Mi aveva già proposto dozzine di volte di uscire insieme, di cambiare i mobili e la tappezzeria di alcune camere, di accogliere nella nostra torre talune sue vecchie amiche… Senza rendersi conto che io, Barone Bodoni, ero contento della mia situazione e non avrei mai permesso a nessuno, a nessuno, di mutarla.

Il mattino che seguì la nostra conversazione a tavola, lei si accinse a uscire e, senza che le avessi domandato alcunché, mi informò che sarebbe andata a trovare i suoi.

Mi limitai ad abbassare il mento in segno affermativo.

«Devo dir loro che mandi i tuoi saluti?»

«Naturale», dissi.

«Ah, va… va bene.»

Non so di che cosa parlasse Rossana con sua madre e suo padre; di appurato c’è solo che, dopo ciascuna di quelle visite, mi sembrava di malumore. Parlavano di me? A letto tremava, le labbra livide per i baci che le mancavano. E non solo i baci, ma anche altro. Probabilmente, desiderava proprio quelle cose orripilanti, irripetibili, di cui avevo sentito parlare a scuola. La mia stretta amorosa non le bastava. Ma che voleva? D’altronde non le avevo chiesto io di sposarmi. Avevano combinato tutto lei e i suoi vecchi…

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Mi aveva adocchiato al mercato. Mi pare di rivedere me stesso con i suoi occhi, con gli occhi di Rossana: un nobile signore, elegante anche nel portamento, non troppo attempato, palesemente facoltoso. Mi aveva rivolto la parola, scambiando di certo i miei silenzi per un segno di superiorità sociale.

Ho già accennato all’astuzia di cui è dotata la feccia, la gentaglia che affolla la Terra. Quello di Rossana nei miei confronti non fu (o non solo) un interessamento per amore. Alla ragazza sognatrice si era quasi subito sovrapposta una personalità furba e machiavellica, ahinoi resa volgare dai modi grezzi che ne tradivano le umili origini. In breve, la cara fanciulla aveva fatto due più due, calcolando che il mio patrimonio, sommato agli averi dei genitori (i quali gestivano una piccola ma proficua merceria), avrebbe garantito a lei e alla possibile prole un futuro tranquillo. Per fortuna io non sono uno sprovveduto. Bambina, vuoi il Principe Azzurro? Ebbene, eccoti servita! Ma non pretendere di più.

Credo che negli ultimi tempi Rossana odiasse profondamente la torre. Le persistenti correnti d’aria le procuravano mal di testa, la uccidevano. Quando mi pregò di “far chiudere le fessure”, la sfidai a cercarle.

«Non c’è nessuna fessura, nessun buco», ribattei alle sue rimostranze. «Queste correnti d’aria provengono dai muri, anche se, come puoi vedere, sono compattissimi. La torre è sempre stata così, piena di spifferi. I muri respirano e quest’arietta è l’inevitabile effetto. Ti ci abituerai.»

«E le finestre?» insisté lei, sull’orlo di una crisi. «Perché non possiamo aprirle?»

«Ma non ti sei appena lagnata delle correnti?»

«Sì, no, cioè… Preferirei avere un po’ più di luce, almeno di giorno.»

«La luce serve solo a rovinarci gli occhi», proclamai, citando una delle frasi predilette da mia madre. Sorrisi, gettando alla signorile dimora uno sguardo circolare. Era stata la genitrice a insegnarmi e a farmi apprezzare l’espediente delle imposte. Tenendole chiuse, o comunque socchiuse, si possono simulare l’inverno e ilcrepuscolo permanenti. Noi Bodoni siamo fatti così: amiamo l’atmosfera violacea delle cripte, dove si palesa la fosforescenza della putredine e l’effluvio dei temporali.

Voi direte che sono pazzo. Non so se lo sono, ma ho certamente ereditato alcune tare familiari. Ecco, guardate lì: quelli sono i ritratti dei miei avi. Signorotti viziosi, arricchitisi alle spalle del popolino. Una stirpe di omini e donnette con la sifilide congenita. Una schiatta che non meriterebbe di riprodursi; neppure tramite matrimonio morganatico.

Fatto sta che, quando Rossana prese a consumarsi sotto i miei occhi, sentii di volerle persino più bene.

Alle emicranie si era aggiunta una stanchezza pesante che la costringeva a restare nell’alcova per gran parte del tempo. Non si alzava più neanche per mangiare. Era il grembo in fiore, ma trascurato, ignorato, a ucciderla di avvilimento. Io, quando non dipingevo, mi ci sdraiavo accanto e la cingevo con le braccia. Dimagriva a vista d’occhio; realizzai che di lì a poco sarebbe arrivata la fine.

Quando fu il momento, un sentimento per cui non trovo un nome appropriato si impossessò del mio spirito, anzi, del mio fisico. Un senso assolutamente inedito, un’entità nuova che mi rinvigorì i nervi e che oserei definire di natura ultraumana anziché animalesca.

Le sollevai la sottana e la penetrai. Mi sentivo come un puledro che poteva infine scatenarsi in una cavalcata liberatoria, un’azione di cui si gioisce ma in maniera guardinga e sospettosa, mentre ci si chiede: “Ma questo sono proprio io? Tutto ciò… sta accadendo veramente?”

Sì, stava accadendo, ed era splendido; anche se Rossana, malata e dolorante com’era, non poteva apprezzarlo in pieno. In effetti, gemette solo un paio di volte, e per l’intera durata dell’atto rimase immobile e con gli occhi chiusi. Alcune lacrime le bagnarono le ciglia e le pallidissime gote.

Mentre raggiungevo l’orgasmo, mi parve che sorridesse. Una luce le irradiò le fattezze del volto e io, stremato ma soddisfatto, mi resi conto che voleva comunicarmi qualcosa, che stava trasmettendomi un messaggio dal luogo in cui adesso si trovava con metà del corpo e con quasi tutta l’anima: il regno delle ombre.

Mosse la lingua, ma era troppo fiacca per emettere suoni di senso compiuto, perciò il messaggio rimase avviluppato nei vapori dello Stige.

Quando ebbi recuperato fiato, rialzai la testa dal cuscino e le toccai la fronte: aveva l’algidità del ghiaccio. Ma non era spirata. Non ancora. Rimase in stato agonizzante per una ventina di giorni, e io ogni tanto mi appressavo al letto per inumidirle la pelle cerulea con una spugna imbevuta d’acqua e aceto. Le pupille erano smorte, velate e scialbe. Nel frattempo, il ventre andava gonfiandosi.

Quando andai a chiamare il medico, il cadavere di Rossana era rigido come una pietra. Accorsero anche i suoi genitori, che piansero lacrime amare e non vollero credere a quanto stava dicendo il luminare, e cioè che nelle spoglie inanimate della loro figliola pulsava una nuova vita.

«Un frutto maturo, direi», ci avvisò auscultando il grembo di Rossana. «Ed è ora. Devo far presto, presto…» E si adoperò, con gesti frettolosi ma esperti, affinché il frutto venisse estirpato dall’albero senza linfa.

Il padre mi si avvicinò tutto trepidante e mi sussurrò: «Povera mia figlia innocente! Non sapeva ancora niente delle cose dell’amore. Pensa che è venuta a raccontarci che tu a letto non… insomma, che la rifiutavi. Ma non vedeva…? Non si accorgeva, quando tu…?»

La piccina fu tratta al mondo. Un caso di nascita post mortem. Mentre emetteva il primo vagito, io gettai una rapida occhiata al cadavere. Ripeto che so di essere, con tutta probabilità, pazzo. La verità è che vidi qualcosa che nessun altro notò, ovvero come la morta sollevasse le palpebre. Vidi lo sguardo della mia defunta moglie accendersi fino all’inverosimile. Parve che dalle pupille sprigionassero raggi luminosi, di uno splendore non riflesso bensì di luce propria. Infine, lo spettro richiuse gli occhi. Definitivamente.

Mi accorsi che il padre di Rossana mi stava scuotendo. Voleva di nuovo dirmi qualcosa.

«Eravate sposati da dieci mesi ed ecco che ora… ora!…» aggiunse con un singhiozzo «… arriva questa creatura. E dunque avete proprio consumato, come si suol dire. Strano però che lei si lamentasse con noi che…» Scosse il testone ingrigito e il suo sguardo angosciato schizzò verso la puerpera senza vita, per poi tornare su di me. «Tu non preoccuparti», concluse pieno di strazio. «Ti aiuteremo noi a far crescere la pargoletta come si deve.» E si chinò sullo squillante fagottino che il dottore, dopo la recisione del cordone ombelicale, aveva posato sopra ai cuscini che stavano ammassati su un’antiquata cassapanca.

Rimangono assai confusi i miei ricordi del battesimo. Nessuno sembrava aver pensato a come chiamare questo prodigio di bimba e io, poco prima che il prete la immergesse nell’acqua santa, decisi stante pede: «Rossana».

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La piccola Rossana cresceva molto in fretta. Potei liberarmi dei suoi nonni solo quando lei aveva due anni. «Ora posso farcela da solo», tagliai corto mentre loro, sgomenti, protestavano.

A cinque anni Rossana ne dimostrava dieci, a dieci era già una donna. Godeva dei miei abbracci. E io godevo di lei. Era un fiore muschiato e vulcanico. Ogni volta che giacevamo stretti l’uno all’altra, mi pervadeva il medesimo senso di usurpazione che mi aveva fatto gioire nel possedere il corpo di sua madre morente.

Adesso sapevo che cos’è la felicità. Uscivo dalla torre solo per procacciare cibarie per me e per Rossana. Al mercato serpeggiavo tra le bancarelle con atteggiamento felice, ben sapendo quali gioie mi attendevano al rientro. Finalmente, la mia oscurità volgeva in magnificenza.

Sono venuti a prendermi ieri per rinchiudermi in questo posto. Dicono che non sono normale. Può darsi. Intuisco che sono furibondi perchého voluto tenere la mia bambina lontana dalle loro grinfie. Quando hanno buttato giù la porta, sulle prime sono rimasti interdetti nel non trovare nessuna fanciulletta, bensì una femmina fatta. Lei, vestita con una vestaglia trasparente, stava davanti alla tela sul treppiede e dipingeva. Un bel guazzabuglio di colori: il nostro capolavoro a quattro mani. Mi buttano addosso accuse assurde: “sequestro di persona”, “pedofilia”, “inadempienza dell’obbligo scolastico”, ecc. Intanto cercano di capacitarsi. Stanno sottoponendo Rossana a numerosi controlli, parlano di “portento anatomico” e stamani i giornali hanno scritto un mucchio di sgradevoli idiozie.

Ma del resto, cos’altro ci si può attendere dal volgo?

“Hello darkness,
my old friend…
I’ve come to talk
to you again.”

(Simon and Garfunkel: The Sound of Silence)

 

 Svegliarsi ogni giorno sullo stesso pianeta e tra la stessa gente: una noia incommensurabile. Al di là del muretto di pietra, rumori di cucina e fumo denso, e una signora che rimesta il brodo bollente; la radio propaga clamori di guerra civile, pronunciamenti militari, notizie di movimenti di truppe nelle caserme e alle frontiere… la solita solfa, insomma. Ma quel giorno era in qualche modo diverso. E lo era per colpa – o merito – di un sogno.

Il giovane Nicu Jota sognò di trovarsi in un cortile perfettamente identico a quello dei suoi genitori. Faceva un caldo insostenibile. Accanto alla casa cresceva un ippocastano, ma non gettava quasi ombra. Nicu avanzò, tritando la ghiaia, fino alla fontanella. Bevve (l’acqua era schifosamente tiepida e sapeva di ferro) e si forbì la bocca col dorso di una mano, mentre con l’altra si riparava gli occhi. Troppa luce. Doveva essere mezzogiorno o giù di lì: non precisamente la sua ora.

Due ragazze gli vennero incontro. Nicu trasalì: non solo il cortile era identico a quello che lui conosceva tanto bene (e che denominavano pomposamente “il Giardino”), ma le due ragazze gli rammentavano Sina e Vilma, ovvero le sue sorelline. Pupattole anoressiche che indossavano vestiti appena accennati. Sina era praticamente nuda: i peli della sua yoni venivano mossi da una leggera, insignificante brezza – pessima imitazione dello zeffiro.

 
 

 
Nicu Jota non dubitò neppure un istante che lo avessero riconosciuto. Inforcando gli occhiali da sole per proteggersi dal sole assassino, andò loro incontro. «Volete fare una passeggiata?» chiese.

Ma le sorelle gli risero in faccia. «Soltanto un cieco potrebbe scambiarti per Nicu. Lui è tanto più bello e tanto più gentile di te.»

«Nicu sono io!» protestò questi. Ed era sicuro di esserlo per davvero. C’era tuttavia qualcosa che gli sfuggiva, come se il nastro dei ricordi si fosse spezzato. Su lui e sulla sua famiglia aleggiava un presentimento di maledizione. Ogni famiglia è segnata da storie grottesche di destini incrociati. Qual era la sua storia? Quale il suo destino?

Accorgendosi che le pupattole lo guardavano con ingordigia, leggermente strabiche e con pupille opalescenti, avvertì una lama fredda penetrargli le scapole. «Chi è vostro fratello, dunque, se non io?» inquisì.

«Nicu», risposero all’unisono Sina e Vilma. «Così lo hanno battezzato mamma e papà e così lui si chiama. Oh, possa vivere a lungo e felice! Tu come ti permetti di spacciarti per lui?»

Nicu Jota si guardò intorno, cercando una via d’uscita dalla dimensione dell’incubo. In quella, inopinabilmente, le ragazze scattarono in avanti e, mentre l’una lo teneva stretto, l’altra lo morse sul collo.

«Cosa…?»

Si sentì ronzare le orecchie, la testa, l’anima. Quel morso fu come un bacio, un bacio straordinariamente possessivo che gli causò un vibrare ininterrotto delle membra, un pulsare dei muscoli facciali e ventrali. Ci fu un istante – un unico, breve istante – in cui intuì la terribile verità: era irrimediabilmente perduto in un dedalo immobile; un’anima vagolante nelle anse del tempo e degli spazi circolari. Poi il nastro tornò a spezzarsi e il pensiero svanì. Rimase l’incubo.

 

Si rese conto che le sue sorelle avevano una pelle di carta velina ed emanavano un forte profumo di anice. “Ma non avrei dovuto già saperlo?” si disse. Intanto i suoi occhi rotevano come quelli di un cavallo impazzito, mettendo a fuoco il greto di un fiume senz’acqua, geometrie di tratturi deserti e, in alto sopra ogni cosa, il castello del conte Vlad, ricostruito a beneficio di turisti tedeschi e americani.

 
Quando i denti di Vilma si staccarono dalla sua carne con un lugubre risucchio, Nicu dovette aggrapparsi al muretto, per non cadere svenuto. “Che sogno di merda!” pensò. Nessuno sembrava aver notato l’accaduto. Del resto, nel cortile non c’era nessun altro a parte un cagnaccio che crepava di malinconia su ciuffi di paglia chiara, dietro siepi spinose.

Nicu chiuse gli occhi, li riaprì. Le sorelle stavano a guardarlo con aperta ostilità. Ghignavano senza spiccicare una sola sillaba, tutte reginette di ghiaccio. Di solito avevano qualche ingiuria parata (uscivano sempre vincitrici da ogni litigio… oh, le interminabili farse domestiche!); le parole “bastard” e “stronzo” erano eternamente sulla punta della loro lingua. Ma adesso quel protratto silenzio, accompagnato da sguardi di ossidiana, faceva rabbrividire Nicu fino al midollo delle ossa. “Davvero mi credono un estraneo?” si domandò. “Devo vederci più chiaro” decise.

 

Mentre rifletteva in questo modo, si trovò in un identico cortile-giardino, che gli appariva alquanto bislacco, come se qualcuno avesse rimosso i singoli elementi che lo componevano per risistemarli poi alla bell’e meglio. Ma poteva anche trattarsi di un’illusione ottica dovuta a tutta quella luce. Nicu Jota era abituato ad andare a letto alle cinque del mattino e a risvegliarsi alle sei di sera. No, quella non era, decisamente, la sua ora. C’era inoltre una calura opprimente che gli faceva sembrare di aver cacciato la testa in un mare di zucchero filato.

Il collo gli bruciava; se lo toccò, poi guardò il dito macchiato di rosso. La mascella gli ricascò sul petto. Gemendo, mosse qualche passo su gambe altamente insicure. Il suo corpo assunse un’angolazione tale da fare ammutolire chiunque gli si fosse trovato davanti. Ma nel Giardino c’erano solo il vecchio cane e, poco più in là, le due sorelle che ballavano e lesbicavano.

Un sogno?

Poiché nell’ultimo periodo aveva dormito poco, stava vivendo uno sballo a livello cerebrale. Ma uno sballo forte: uno Sballo. E senza l’ausilio di oppiati. Faceva spesso dei sogni incredibili, anche a occhi aperti. Da tempo non raggiungeva più la fase REM. Si accontentava di due-tre ore di pennichella a notte (o, meglio, a giorno), e ciò bastava per riempirlo di visioni. Si trovava in una condizione di semi-allucinazione permanente; i suoi pensieri correvano per lande indescrivibili mai esplorate prima. “E sarà meglio che questo giorno lo trascorro a letto, sennò chissà che cosa succede al mio cuore, al mio cervello, a tutto! (Può un uomo scoppiare? Voglio dire: esplodere, letteralmente? Esplodere come una nova, irrogando il mondo circostante del suo sangue e dei corvi neri della Notte di Walpurga della sua anima?)”

Certo, lo “sballo” era un’esperienza come tante altre, ma meglio non ripeterla troppo spesso. Si rammentò di quella volta in cui, quindicenne, sdraiato sul lettino della sua stanza sotto-il-tetto, volle fare l’esperimento di distaccare la mente dal corpo. Ad un tratto aveva avuto l’impressione di sollevarsi a mezz’aria… Dopo quei pochi secondi di “levitazione”, il suo cuore aveva cominciato a battere all’impazzata. Era stata un’esperienza-limite, una delle prime della sua vita: il tentativo di mettere alla prova il proprio essere.

Ora, con gli occhi e il cervello pieni di colla, prese di mira l’ingresso della casa, la cui ombra lo attirava, invitante. Nascondersi in quell’anfratto: ecco il suo più grande desiderio. Cercò di indirizzarvisi, ma le gambe crollarono sotto il corpo. Girò su se stesso, cadde in ginocchio. Pregare minacciare respingere, un implorare con la bocca muta… Lievi nuvole di vapore gli fuoruscirono dalle labbra. Finalmente recuperò le energie residue e puntò sull’ingresso.

«Nicu! Ni-CU!»

Vilma aveva uno strano modo di chiamarlo, pronunciando la seconda sillaba del suo nome di qualche ottava più alta. Ma, essendo lei la sua adorata sorellina, poteva permettersi quel tono.

Nicu si arrestò e, abbracciando l’ippocastano, chiese, pieno di speranza: «Ah, ora mi riconoscete?» Si girò, ma non vide le due da nessuna parte. Allora, al colmo della disperazione, urlò: «In nome di nostra madre che vi ha dato la vita, in nome del cielo! Per la salvezza della vostra anima, vi supplico di dire la verità!»

Non gli giunse risposta. Al di là del muretto, richiami vaghi e urla stancanti passavano veloci nell’aria. La radio dei vicini sbatacchiava:

All I need is a rhythm devine,
viva la musica say you’ll be mine…

Nicu Jota emise un sibilo gelido, mentre al di sopra del cortile sfrecciavano rondini controvento. Se stringeva gli occhi, poteva distinguere le propaggini di cemento della periferia di Bucarest – gli sconfinati slums di Dead City -, con la cappa nebbiosa sopra i grattacieli. (Dannati di questa Terra, unitevi!)E, a meno di mezzo chilometro di distanza, un Caterpillar abbandonato. Paese di sassi e miseria… Odiava quel posto, ma non era capace di distaccarsene, neppure durante le fasi oniriche.

I contenuti di un sogno sono il prodotto della civiltà: rispecchano le influenze culturali del tempo e del luogo. Per noi, figli del nostro tempo, questo significa: BSE, afta, AIDS, buco d’ozono e guerre varie. E, per quanto concerne segnatamente la Romania: povertà e corruzione. Il padre di Nicu era stato un “soldato di partito“: ecco come mai la famiglia Jota era in possesso di quella dacia.

Nicu osservò la facciata, che presentava tutte le palpebre chiuse; quindi vi si lanciò contro. L’interno era al buio: lux est luxus. Soltanto una tenue luminiscenza proveniva dal piano superiore. Divorò gli scalini a tre alla volta. Gli occhiali scuri gli si appannarono e dovette fermarsi per toglierseli. Giunto in cima, si ritrovò dentro una stanza oblunga: un ambiente poco pretenzioso, una sorta di canile con un’unica lampadina che penzolava dal soffitto. Le serrande erano chiuse, la candela Osram accesa.

La stanza sotto-il-tetto odorava di candeggina e detersivi. Niente di strano, dato che fungeva anche da lavanderia. A un’estremità era piazzata la lavatrice: più che un elettrodomestico, era un Moloch che borbottava monotamente. Due ragazze erano affaccendate con la biancheria e ridevano. All’altra estremità c’era un letto e, sul letto, un giovane sui vent’anni.

Inoperoso come sempre. Un vero pelandrone, l’onta della famiglia. Nicu Jota cercò per lui delle giustificazioni. I suoi genitori tenevano in casa solo due libri: la Bibbia e l’autobiografia di Ceausescu. Ecco perché quel ventenne era diventato così. Ecco perché aveva scelto il letto come sua residenza perenne. Ma in fondo era un bravo ragazzo.

Si trattava del suo avatar? Del suo clone? Un clone è un gemello con un identico codice genetico, ma i due non sono necessariamente la stessa persona.

Sebbene la stanza fosse iperriscaldata, Nicu si sentì tremare per il freddo. Vide Sina issarsi una cesta sulla testa, in equilibrio, mentre Vilma, china su una bagnarola, canticchiava allegramente. Il giovane sotto le coperte osservava le sorelle fra mille sbadigli. Evidentemente si era appena destato. Quando si piegò su un fianco per prendere un bicchiere che conteneva dell’acqua straclorata, Nicu si accorse che aveva sul collo due buchi vistosi.

In quel momento Vilma si rivolse al giovane:

«Sei così triste, Nicu! Che cosa hai sognato?»

«Ho sognato di trovarmi in un giardino e che voi due non mi riconoscevate più. Anzi: vi comportavate proprio da streghette!» Il poltrone si toccò i buchi, poi guardò il dito macchiato di rosso, se lo portò alla bocca e – «Mmm…» – assaporò il sangue. «Dicevate che non ero vostro fratello! Dopo sono entrato in casa e ho scoperto un altro Nicu che dormiva sul mio letto.»

Nicu, che aveva seguito quella discussione, non poté trattenersi dall’intromettersi.

«Sto cercando Nicu Jota», dichiarò. «Sei tu?»

Il giovane deviò lo sguardo su di lui. Gettò a terra le coperte e si sollevò con ossa che crocchiavano. Appariva stanco, schiantato. I suoi capelli – simili alla cresta di un upupa – sfioravano il soffitto basso e affumicato dagli anni. Avanzò nella polvere che danzava follemente e venne a fermarsi a pochi centimentri da lui.

A questo punto, sotto i miasmi della candeggina e dei detersivi, Nicu percepì un altro odore, un odore diverso: lo stesso che doveva regnare nella mitica palestra di Amor. “Che succede in questa casa?” si disse; e, alla copia di se stesso: «Non sei tu… non sei me. Sei soltanto la mia copia».

«Tu non ci credi, credo, e non lo vedi, vedo», replicò il giovane. Quindi mutò repentinamente tono ed espressione. «Faccia da oboe, culo di merda, piscialetto, appendipanni, MacDonaldiano, falso saccente!» prese a insultarlo, sotto gli sguardi tifosi e lascivi delle sorelle.

«Dorminpiedi, Mister I’m-looking-so-good, segaiolo, imperialista, muso di cane!» gli vennero in soccorso queste.

Per la durata di un battito di ciglia, a Nicu mancò il respiro. Ma non poteva lasciarsi sopraffare, non poteva farsi asservire in quel modo. Doveva rimpossessarsi, con calma, con affabilità, del suo piccolo reame. Indicando Sina e Vilma, chiese: «Loro… che cosa ci fanno qui?»

«Non lo vedi? Lavano i panni e mi tengono alto il morale.»

«E tu perché stai rinchiuso?»

«La luce mi fa male agli occhi», rispose il giovane. «Eppoi questa terra ha artigli micidiali. È difficile sopravvivere, là fuori.»

La lampadina si spense e si riaccese: uno scompenso elettrico, fenomeno normalissimo da quelle parti. Nicu restò a fronteggiare la copia di se stesso. Il pelandrone aveva occhi innaturalmente rossi, o almeno così gli sembrò. Lui stesso sapeva di presentare un aspetto spaventoso: barba di tre giorni, capelli lunghi e selvaggi, bocca dalle labbra screpolate che si rifiutava di aprirsi se non per emettere sentenze irreali, ecc. Ma doveva tornare a tutti i costi ad occupare quello che considerava il suo posto legittimo.

Volse la testa verso le pupe. Emaciate e silenti, assistevano alla scena grattandosi distrattamente i riccioli del pube.

«Giù gli occhi dalle mie sorelline!» scattò allora Nicu Due, con voce affilata. Probabilmente credeva di avere un diritto di prelazione sulle ragazze.

«Quelle sono le mie sorelline», proclamò Nicu. Poi, lottando contro gli stimoli della ragione, che lo inducevano a risvegliarsi, ebbe un sorriso d’intesa per il suo gemello e, ammiccando, gli puntò un dito sulle costole.

Il gesto sembrò far rinsavire di colpo Nicu Due. Lasciandosi andare a un abbraccio (Nicu si sentì accapponare la pelle), Nicu Due disse: «Dunque non era un sogno! Eccoti tornato, Nicu Jota!»

 


Nicu Jota si destò. Un filo di bava bagnava il guanciale. Si sentiva decisamente grullo, e riuscì ad abbandonare la brughiera dell’oblio solo dopo aver risalito un lungo, lungo declivio. Le sorelle investigarono: «Che cosa hai sognato, Nicu? Sei così triste!»

«Ho sognato di trovarmi nel giardino e…» Si interruppe per toccarsi i buchi che scoprì di avere sul collo. Poi studiò perplesso il dito sporco di rosso. «Mi sono risvegliato in uno strano posto», aggiunse.

«Che cosa vuoi dire?»

Alzò lo sguardo, ma le ragazze non c’erano più. Forse, magre com’erano, erano passate attraverso le intercapedini… Inforcò gli occhiali da sole, si sollevò dal suo letto di morte e andò a guardare dagli spiragli delle persiane. Le vide correre in mezzo alle ortiche, entrambe nude: come ninfe, come naiadi. Tornò a girarsi e… scorse qualcuno sul suo letto.

«Speravo ardentemente che tu venissi, Nicu Jota!» trasmise il giovane, stiracchiandosi sotto le coperte.

Nicu Jota lo scrutò disorientato. Per l’arco di un secondo capì di essere intrappolato in qualche dilatazione einsteiniana della dimensione temporale. Prigioniero di una situazione che si rimandava all’infinito. Ma non sarebbe servito a nulla tentare di opporvisi: non c’era altra esistenza che quella.

Il giovane continuava a guardarlo; la contentezza gli bruciava le pupille con gli occhi di mille soli. L’evidente goffaggine che contraddistingueva ogni suo gesto sanciva una gioventù incompiuta e inutile. Non era che un guitto poco talentuoso, una scimmietta vegetante nella dimora paterna.

Nicu Jota non gli replicò alcunché. Tornò a spiare dalle persiane. Fuori era più caldo e più soffoco che mai. Quelle prugnette delle sue consanguinee si mordevano a vicenda la gola: il loro trastullo preferito. Il cagnone se ne stava buttato come sempre sull’erba rinsecchita. Sull’orizzonte sempre più vicino si innalzavano nuovi casamenti popolari, ennesime sedi di illusioni e speranze irrancidite. Sul muretto del cortile antistante qualcuno aveva scritto:

RED ARMY GO HOME.

 

 

Il sole cominciava a declinare. Finalmente! Una comitiva di turisti, di quelle che Nicu dileggiava spesso e volentieri, si arrampicava su per un viottolo fino al famigerato castello. La loro scalata sembrava simboleggiare lo stesso percorso doloroso dell’umanità. Dal castello proveniva un’esalazione misteriosa con cui la gente dei paraggi non si sentiva di competere e che gli stranieri non erano mai veramente in grado di percepire. Ma il giorno si avviava alla conclusione: presto sarebbe scoccata l’ora in cui Nicu fosse tornato sereno, l’ora in cui si ricompattava la sua personalità dissociata.

“Domani è un altro giorno e nella clessidra non scorre sabbia, ma sangue miscelato a una sostanza indefinibile: piccole cellule microscopiche, ministrutture; larve di insetti invisibili.”

Intuì che sarebbe stata una notte lunga, molto più lunga del solstizio d’inverno.

 

(Dai “Racconti Sborror” (C) di franc’O’brain)

#letteratura #horror #fantasy #romania #povertà

A che serve la scuola

15 Maggio 2011

 La Storia, ma anche le leggende storiche, e la stessa Bibbia, sono piene di horror. E’ cosa lodevole che voi, signori maestri, ci parlate del “Nostro buon Dio” (ora di Religione), della “saggezza dei Cesari” (ora di Storia) o della “Provvidenza” (che non ho mai capito cos’è, e comunque: Verga e dintorni, ora di Letteratura). Cosa lodevolissima. Ma sapete molto bene che state snocciolando fandonie.

La vita è tutta sangue, sudore e lacrime. E l’unico Aldilà possibile e immaginabile è quello della Gloria Imperitura, dello stardom. Anche se riusciste a inculcarmi un po’ di fisica e matematica, a che mi servirebbero? A pilotare un’astronave fantasma? A costruire un’altra centrale foriera di morte e distruzione?

Preferisco invece imparare uno strumento musicale e scrivere e cantare canzoni, cercando di diventare ricco e famoso. (Ma anche solo per lanciare un messaggio immediato e di facile comprensione.)
E a sera, prima di addormentarmi, state tranquilli ché leggo sempre i libri e le cose che voglio io; difatti, sono ben più erudito di voi…

Presto la silloge di racconti horror In Paradiso è scoppiato l’Inferno (by franc’O’brain) come ebook sul sito http://www.ebookgratis.net/ !

 

in-paradiso

 

Leggi qui una nuova intervista con l’autore

 

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Due links amici

20 Maggio 2009

aNobii: http://www.anobii.com/peterp/books

L i t e r ae: http://scrittura.ning.com

Siamo un granello di sabbia nell’universo. E’ una cosa che già si sa ma che è bene ricordare. Ancora nessuno scienziato ha saputo dare una risposta concreta alla domanda che da sempre ci assilla, ovvero: “Che cos’è la vita e come si sono create le galassie?” Cioè: la materia esisteva prima del Big Bang? E se sì, che cosa c’era prima della materia?

Riflettiamo un attimo sulla fisiologia del nostro pianeta: i continenti poggiano su un fiume scorrevole di fuoco, e anche per questo abbiamo lo spiacevole fenomeno dei movimenti tellurici. Piastre che scivolano e urtano tra di esse, fosse di San Andrea, pozzi neri in fondo agli oceani e quant’altro. Viviamo su una crosta sottile; siamo microbi risultati dal raffreddamento di gas e sviluppatisi nel corso di milioni, miliardi di anni grazie al paziente “lavoro” delle piante, delle foreste – amazzoniche e subtropicali in primis: proprio quelle che oggi stiamo distruggendo…

Inoltre, tantissimo del nostro destino dipende dalla direzione del campo magnetico (ci sono stati periodi in cui il campo magnetico è addirittura “caduto”, e ciò potrebbe capitare ancora: se il nucleo del pianeta smette di roteare, sono guai seri!). E non dimentichiamo che alcuni vulcani, per esempio il Vesuvio, sono a rischio di eruzione. Il Vesuvio potrebbe “esplodere” anche domani, ma speriamo di no: il cielo di almeno metà dell’emisfero Nord si oscurerebbe per tantissimi anni, forse addirittura per secoli, con conseguente abbassamento delle temperature…

L’evoluzione della nostra razza è un concetto assolutamente da relativizzare, soprattutto se leggiamo le notizie di cronaca e dal fronte della politica. Siamo in realtà delle bestie, e credo che solo una piccolissima parte di noi sia diventata Homo sapiens sapiens, mentre i più sono rimasti Homo sapiens e, evidentemente, ci sono ancora in circolazione tanti trogloditi, tanti neanderthaliani. La “bestialità” della nostra natura è testimoniata anche dalla Storia; consideriamo per esempio i viaggi di conquista e di colonizzazione di terre distanti: abbiamo praticamente scannato popolazioni intere, in America, in Africa, nelle isole del Pacifico, in Oceania…

Tutto questo discorso mi serve per introdurre Gli amanti di Pangea. E’ un miniracconto di Peter Patti che richiama le atmosfere di certi libri di Edgar Rice Burroughs, Donald Wandrei o, per rimanere agli scrittori contemporanei, Robert Charles Wilson (se non lo avete ancora fatto, leggete, di quest’ultimo, il romanzo Darwinia).

 

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