Il C64

29 gennaio 2022

40 anni fa (nel gennaio 1982) il Commodore –
C64, C128 – venne presentato al Consumer Electronics Show di Las Vegas.
Per molti fu un passo decisivo verso il primo PC.

I dischetti erano da 5 pollici e passa…

Sui tempi pioneristici della moderna cibernetica leggi: ‘I dolori di Cyberius’, romanzo. (EBook)

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  IL CARBONE BRUNO                                          

“Sì, Lindoro mia sarà… lo giurai, la vincerò…”

 

  (G. Rossini: Il Barbiere di Siviglia, Atto I, Scena III)

«Laggiù, dall’altra parte… la neve era nera. Nera.»

Brigitte quasi albina mi racconta ogni cosa, si racconta, stasera, rivivendosi settenne od ottenne a Lipsia. La neve nera e le fosse che si allargavano come ferite: ecco le uniche cose che sembrano esserle rimaste dell’infanzia.

«Scusa, ma di che fosse vai parlando?» indago, con blando interesse.

«Delle miniere.»

Ah, ora è chiaro. Le miniere. Le miniere di carbone in Turingia sulla luna.

Brigitte stessa ha in sé qualcosa di lunare. È seduta di traverso sul materasso pieno di macchie, la schiena contro il muro, e io addosso a lei. Ha uno sguardo soffice e intelligente e una bocca di zucchero. Erano secoli che non trascinavo nel mio stambugio una cosuccia tanto carina. Dopo averla adocchiata al Frantic, mi son detto: “Che chicca! Mi fa sangue.” E giù ad attaccare bottone. Ovviamente mi sono subito accorto che parla un tedesco sciscì, ma questo non significa che abbia “la puzza sotto il naso”. Neanche la sua aria da studentessa può intimidirmi. Nessuna può intimidirmi. Da buon italiano, io la penso alla maniera classica: le donne? Tutte puttane. Tranne la mamma.

Le artiglio la nuca e protendo le labbra.

«No, aspetta!» fa lei. «Guarda.»

Fruga nella borsetta e mi porge una foto: sullo sfondo di una casa-caserma, ecco Brigitte-bambina.

«Eri deliziosa già allora», le alito su una guancia. «Le treccine… Le scarpine che affondano nella ghiaia…»

 Ci tiene a informarmi: «È carbone, non ghiaia. Carbone bruno. Nella DDR, il carbone era dappertutto. Ci facevano ogni cosa: la benzina, i vestiti, i muri…» Il Muro. «Una barriera invalicabile», dice. «Quanti lutti per colpa di quella mostruosità!»

Si ravvia i capelli, mentre mi spiega che la sua famiglia è fuggita all’Ovest quando lei aveva cinque anni. Ha la parlantina sciolta, ma sembra insicura: evidentemente la mia tana la spaventa. Beh, in effetti spaventava anche me, all’inizio. Le prime notti qui non potevo chiudere occhio, a causa del lampeggio proveniente dall’insegna del pub sottostante. Balenii rossi e blu sincronizzati. Poi ho imparato a contarle, queste luci, ma non è lo stesso che contare le pecore.

Tiro fuori le Marlboro e il fumo mi inonda i condotti respiratori. Intanto Brigitte continua a raccontarmi della sua infanzia. Come se a me importi qualcosa di quel che succedeva dall'”altra parte”! Aspiro l’intruglio di carta, catrame e nicotina bollente pensando: “Vai a farti fottsz!” Se Nando S. viene a sapere che sto qui, insieme a questa bonazza, senza combinare nulla…! Sai che risate!

Nella tana di Nando, ogni notte qualcuno vomita sulla tappezzeria un nuovo disegno. A volte deve accorrere il medico del pronto soccorso, perché Inga – la sua négresse – oppure qualcun’altra si è sentita male ed è in preda a un raptus, o peggio.

«No, lasciami stare.»

Comincio a pentirmi di averla rimorchiata. Al mio paese si dice: “Mai giudicare una giovenca dal pelo della sua coda”. Brigitte è sì bella, ma ha voglia di parlare e basta. La lampada che, nuda, penzola sopra la sua testa, rende il suo sguardo quasi ittico. Al Frantic mi era sembrata diversa, più spigliata. Ma, se si è trasformata, è certo colpa dell’ambiente.

Lancio un’occhiata circolare. Da non crederci, ma per questo schifo mi tocca pagare 500 marchi al mese. Le pareti sono pannelli in cartongesso; un sistema di intercapedini che forma tre locali. Non locali: nicchie. Questa stanza, più cesso e cucinino. Su uno dei pannelli, l’inquilino di prima (era polacco? o indiano d’India?) ha incollato delle stelline d’argento: souvenir natalizio che io ancora non mi sento di togliere. Sul comodino, un posacenere con una montagna di cicche e i cottonfioc sparpagliati. Ai piedi del letto sono buttate le mie sneakers da bici di Superga e due paia di calzini luridi. Il televisore me l’ha venduto un turco; riceve solo programmi tedeschi, e io il tedesco ancora lo capisco poco.

«Ho sonno», dichiara Brigitte. «Quasi quasi, stanotte rimango da te.» E dà un’occhiata allucinata in giro. È una di quelle ragazze che vivono nella bambagia. Mi sembra di vederla, nella sua cameretta pulita e ordinata, dormire abbracciata a un orsetto flanellato. Come mai si è avventurata fuori, nella giungla? Pollastre come lei vengono uccise di coltello o rasoio.

Dice di aver sonno, eppure il suo estenuante monologo non ha fine. È chiaro che cercava qualcuno con cui confidarsi. E ha finito col trovare me. E brava! Ho notato che, nel pronunciare certe parole, mostra la punta della lingua – pare una ciliegia cresciutale sulle labbra -, e un sospetto mi addenta alla testa: il sospetto che lei non sia del tutto normale. Il suo papà l’avrà lanciata in aria una volta di troppo…

Apprendo che si è iscritta all’Università. Mmm. Di certo trascorre molte ore in biblioteca, tra vecchi libri e documenti ingialliti. Per me i libri sono veleno; soprattutto quelli antichi. Le spore della muffa mi entrano nel naso e tentano di uccidermi.

Di là, il cigolio di un letto. Nando S. ha una predilezione per le donne mature, dai ventotto in su. Adesso starà con la Inga. O con una nuova. In tutti i mesi in cui conosco il connazionale, ho visto entrare nella sua tana cameriere dal seno gonfiato, mondane dalle labbra viola, casalinghe con gli occhi di pantera… ma mai una come Brigitte.

Brigitte non ha un cuore di silicone: è nata per amare un unico uomo, un uomo da cui ricevere dei cuccioli. Peccato che, per il sottoscritto, diventare padre sia qualcosa di repellente!

Continuo a palparla, ma senza più convinzione. Mi sento arrugginito. Negli ultimi giorni o mesi sono riuscito ad agganciare solamente pollastre con l’alitosi o con il piede valgo e mogli che ti piangono addosso negandoti le fessure. Ultimamente è stata qui una trentenne fresca di vedovanza: era infoiata, gli occhi e il cervello pieni di colla. Neanche a letto ha voluto togliersi quel suo vestitaccio nero. Qui arriva solo merce avariata.

«Senti», prorompo, «ascoltiamo della musica.» Mi alzo per mettere un cd, ma non è facile: la confusione è immensa. I dischi sono sparsi per i più remoti anfratti. Tutta questa musica lasciata al suo destino, muta! Dovrei apportare qualche miglioramento, che so: fare una cernita, infilare la roba superflua dentro sacchi di immondizia…

La mia collezione comprende diverse raccolte di successi italiani. Alle tedesche le nostre mandolinate piacciono molto. Umba, umba, tarà, ra’-ra’. Un pugno di accordi e mille sogni. Volare, ‘O sole mio…

Infilo qualcosa nello stereo e già parte il primo pezzo: una canzone del Sanremo dell’anno scorso. Già che ci sono, ne approfitto per togliermi il maglione, così smaltisco un po’ di calore. Il termosifone va a mille, regolarlo è impossibile; sembra di essere in una sauna. L’aria è stantia, fumosa. Aprire la finestra? No, meglio di no. Fuori devono esserci 20 sotto lo zero.

Mentre sto per tornare a sedermi accanto a Brigitte, vengo attratto dalla mia immagine allo specchio.

Vedo un tipo alto e magro, con la faccia ossuta e le basette disegnate sulle guance. La sigaretta, brandita fra indice e medio, sembra una siringa preparata per un agghiacciante gesto eutanasiaco.

Questi miei occhi… Di solito porto occhiali scuri. Anche quando non splende il sole. Li porto persino di notte: in disco, per strada. Solo a casa ne faccio a meno. Avvicino il mio volto allo specchio: si presenta bianco come uno straccio. Gli occhi – lo ammetto – incutono paura.

Sono sempre in giro: per forza mi tocca prendere della roba per restare sveglio! Oltre ai litri di caffè, ogni tanto butto giù un paio di anfe o qualcuna delle pasticche colorate che Nando S. mi ficca in mano. Gli italiani di mia conoscenza sono tutti strafatti di coca, crack, ecstasy. Niente di strano che nei ristoranti i clienti si vedano servire spesso pizze assai strampalate!

Anche nelle rare occasioni in cui voglio starmene a casa, perché stremato per la fatica, c’è Nando che mi spinge a uscire. «Non fare il pirlazzone», mi ammonisce, affibbiandomi piccoli pugni sulle spalle.

Quando va in fibrillazione compulsiva, Nando è un bulldozer, uno schiacciasassi. Impossibile opporsi. Lui è per le auto veloci e… per le donne veloci, quelle che passano come l’ombra di un fotogramma, volatilizzandosi immediatamente. Con la vita che conduce, morirà prevedibilmente prima dei trent’anni. Ma intanto si diverte: con la Inga o con le consorti di altri.

«Il Muro», continua Brigitte. «Nel 1990 sono tornata a rivederlo. L’ho attraversato passando per una breccia. Me ne sono persino procurata una scheggia, prima che “i picchi muraioli“ lo demolissero definitivamente. Se vuoi, un giorno te la mostro. La scheggia, voglio dire.»

«Mmm», brontolo. Che libidine! Nulla da eccepire su un po’ di conversazione, ma questo è peggio che al confessionale! Magari lei è una di quelle tipe pesantemente cattoliche, anche se il suo abbigliamento non si addice a una santarellina: porta infatti un vestito stravagante-trendy color albicocca che lascia intravedere ogni cosa. Le metto le dita tra i capelli e, di nuovo, lei respinge la mia mano. È fredda, distante. Colpa dell’ambiente? Decisamente, questo luogo non si presta agli incontri romantici. A parte l’incommensurabile disordine e le strisce rossoblu che vanno a stagliarsi sul soffitto, la polvere è dappertutto.

Mentre prosegue a parlare, il tempo avanza a passo di lumaca. Il tempo ha tempo da perdere e viene a fermarsi da noi per riposare. La noia viene a visitarci e si comporta come se questa fosse casa sua. Brigitte blatera bla’. Anziché stare ad apprezzare gli idoli canori d’Italia! Discorsi che mi causano il mal di testa. Fino a un’ora fa sprizzavo entusiasmo da tutte le scaglie. Essere riuscito a rimorchiare questa bionda pettoruta, uscire con lei dal Frantic sotto gli sguardi invidiosi di tutti mi era sembrata chissà che impresa…

I bagliori intermittenti dell’insegna del pub sembrano suggerire:

“LASCIATE LA VOSTRA VITA ED ENTRATE IN UN MONDO MIGLIORE.”

Vorrei correre fuori, fuggire dallo squallore circostante. Scandaglio il mondo oltre i vetri: buio fondo. La meteorologia è uno schiff. C’è pure nebbia: tipico inverno teutonico. Bisogna forse stupirsi che qui alla gente il cervello gli va di balta? Laggiù, nel paese del sole, di tutto questo non sanno un tubo.

Il quartiere in cui vivo è stato costruito là dove prima c’era un bosco, e dunque in un luogo che dovrebbe conferire alle abitazioni (pomposamente denominate “monovani”) una dimensione naturale. Di alberi però non se ne vedono manco col cannocchiale, e dai rubinetti esce acqua straclorata.

Ma perché lamentarsi? In tivù ho visto l’Afghanistan: decine di migliaia di disperati che vagano con pochi vestiti addosso e nessun riparo di alcun tipo. Dormono per terra, ai bordi delle strade… Quelli sì che stanno male!

Torno a volgermi verso Brigitte. Peccato che sia un po’ decerebrata, perché è bella, procace. Potrebbe essere una fatina della notte; e io il suo protettore. Le punto l’indice sulla fronte e: «Pum!» sparo.

Tace di colpo; proprio nel momento in cui termina una canzone. Nell’arco dei secondi che anticipano l’inizio della successiva, il silenzio è talmente profondo che si sentono solo le ossa dell’edificio scricchiolare. E, ogni tanto, le risate e i mugolii provenienti dall’appartamentino contiguo. Mi chiedo con chi se la sta spassando Nando. Se non è la Inga, sarà un’altra. Mentre io… Già mi vedo a masturbarmi dopo che Brigitte se ne sarà andata; vedo la mia mano agitarsi sempre più lesta…

La bionda tiene gli occhi chiusi; è pallida più della luna. Mi sporgo per spappolare la sigaretta nel posacenere e: «Dài, spogliati» la sollecito.

Si fa dura, di marmo. Mi fissa guardinga negli occhi. Questi miei occhi di bragia. Non capisce che sto combattendo per non far dissolvere gli ultimi strascichi di euforia. Le sbottono la camicetta, le sgancio il reggiseno. Sui capezzoli ha peli quasi trasparenti, ed elettrizzati. Ancora una volta respinge la mia mano e io, con mia stessa sorpresa, non le do nemmeno uno schiaffo.

Lo ammetto: non sono in forma. Dovrei dormire di più. Ma come? Non c’è mai tempo: bisogna sempre andare in giro, esorcizzare il mal di solitudine. Nel Belpaese mica lo sanno la vita che facciamo quassù! La vita che faccio. Dieci ore al forno della pizza, poi di corsa al Frantic, l’unica discoteca della cittadina. L’occhiale da sole è un bene irrinunciabile; anche di notte. Soltanto il mercoledì – mia giornata libera – riesco a riposare. Il mercoledì mi sveglio sul tardi e, se la discoteca è ancora chiusa, vado a infilarmi in una bisca, dove gioco al flipper o sfido al biliardo greci, turchi e rumeni. A volte mangiucchio qualcosa nella pizzeria che fa la concorrenza a quella in cui lavoro io. Poi… via! In cerca di prede. Spesso fino all’alba. È giusto stancarsi quando si è giovani! Se non ci stanchiamo ora, quando potremo farlo? Presto saremo scaraventati nel mondo reale, quello dei “grandi”: nessuna possibilità di cazzeggiare. Ma non credo che, in qualsiasi tempo e luogo, potrei mai smettere veramente di cazzeggiare. C’è gente nata per lo sport, altra nata per le scienze o per le arti… Io, come diceva Guccini, sono nato per i parties.

Cerco di baciare la quasi-albina, col sapore della Marlboro che mi ammorba la bocca, ma lei si ritrae con occhi spaventati. Capisco che questo nostro convegno resterà un episodio isolato, che presto ripiomberò nella solitudine.

Non sopporto di ritrovarmi da solo, abbandonato, battuto dal dolore della lontananza. I miei mi hanno lasciato partire senza tanti rimpianti: in casa c’erano troppe bocche da sfamare e qualcuno doveva pur sacrificarsi per alleggerire il bilancio. Dovrei mandare loro i soldi, invece li spendo tutti qui per stordirmi ogni notte nei locali, nelle bische. E i giorni sono anche peggio. Mi metterei a urlare ogni volta che mi ritrovo internato in questo alveare di cemento. Sento le porte che si aprono e si chiudono… Allora mi metto a fissare la maniglia finché non riesco ad azionarla con la sola forza del pensiero. E mi proietto fuori, dove però non c’è niente: solo una distesa bianca come un foglio di carta vuoto. Nel giro delle figure in cui mi imbatto durante la mia passeggiata, riscontro una stordente familiarità con le statue di gnomi nei giardinetti.

Le strappo un bacio, poi cerco di sfilarle la gonna. Evidentemente ciò non la disturba più. O forse è solo sfinita, rassegnata. Addirittura si inarca per facilitarmi l’operazione. Nel contempo, però, aumenta la veemenza della litania.

«Il carbone bruno è un minerale di pessima qualità», dice. (La mia lingua nella sua orecchia.) «Consiste per il trenta per cento di acqua, per ben il quattro per cento di zolfo e contiene molta materia cinerea.»

Sa proprio un sacco di cose. Foemina sapiens. «Sai tutto» (arrapato).

La schiaccio sul materasso.

La sbatto? Ti sbatto!

Io un asino scuro, tozzo; lei superalfabetizzata. Una forma di protesta, la sua, mettersi insieme a uno come me; a un Canaco; uno straniero, cioè.

Vive nella Germania Ovest da una decina d’anni. Ha imparato fin da subito come ci si veste nel mondo civile. Di spogliarla tocca a me, a me Canaco.

Comincio a farlo. Ma non ci sta. Stringe le gambe. È come giacere accanto a una sirena, a una donna-pesce. Quando torna ad aprire bocca, perdo la pazienza. «Schweig, Schlampe!» scatto.

Il viso le si increspa; tuttavia, continua a macinare parole. Mi fa passare davanti agli occhi un film che narra di devastazioni. L’Est tedesco. Ciminiere come inutili monumenti e, per le strade piene di buche, disoccupati disoccupati: le vittime dell’Unità.

«Che fai?» salta su a un tratto.

La fotto? Ti fotto! Lei quasi lattea, io nero di peluria. «E non frignare!» la sgrido.

Torna in sé a giorno fatto. Tutta sola sul lettino. Via il carbone, rimane la cenere.

franc’O’brain è uno degli pseudonimi usati dallo scrittore Peter Patti. I suoi romanzi e racconti sono presenti su Amazon, massimamente in formato Kindle eBook. Ha lanciato uno stile chiamato “sborror” (una variante più colta dello splatter ).

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